Senua's Saga: Hellblade II e il dialogo con i morti
"È come trovarsi di fronte la psiche nel momento esatto in cui si mostra"
“Se non veniamo a patti con i morti semplicemente non possiamo vivere” perché “la nostra vita dipende dalle risposte che diamo alle loro domande rimaste senza risposta.” Così lo scrittore e storico Sonu Shamdasani introduce il suo discorso sul Libro Rosso di Carl Gustav Jung, uno dei padri della psicanalisi, dialogando con lo psicologo James Hillman nel libro “Il lamento dei morti”, in cui i due intellettuali hanno cercato di illustrare l’impatto della pubblicazione dell’opera più personale e sofferta dello psichiatra svizzero sulla scienza che ha contribuito a fondare.
Shamdasani, che ha curato la pubblicazione postuma del Libro Rosso, lo descrive come “Un’elaborazione lirica. Un’evocazione. Un tentativo di trovare le espressioni adatte perché le immagini possano risuonare.” Spiega anche che il testo è “Jung senza concetti”, ossia esprime l’essenza delle sue riflessioni senza “un singolo termine concettuale”, tanto che “Non nomina gli archetipi, non nomina l’inconscio, e se la cava benissimo.”
Non che Jung rifiutasse i concetti, che riteneva comunque necessari per il formarsi di una scienza psicanalitica, ma “Per lui le parole, i concetti sono un tentativo di domare l’incomprensibile, il caos.”
Le figure devono essere lasciate scorrere e bisogna lasciarsi coinvolgere dal loro emergere, nel senso letterale del termine, solo così si può udire la voce dei morti, nelle cui parole si trova l’intera esperienza umana. “Jung tiene in considerazione ciò che si trova nel mondo infero. Non lo respinge, non pensa che vada scartato.” Spiega Shamdasani. Ma la nostra società vive nel rifiuto dei morti e della morte, illudendosi di poterli ignorare, tanto che Hillman definisce questa forma di rimozione un “sintomo collettivo”. Incontrare la morte per Shamdasani significa “accettare la responsabilità della storia.” Perché “Ciò che accade nella collettività avviene anche dentro di noi.”
Il Libro Rosso, quindi, non è un tentativo di spiegare la psicologia ma, usando le parole di Hillman, è “come trovarsi di fronte la psiche nel momento esatto in cui si mostra.”
Senua’s Saga: Hellblade 2 è come trovarsi di fronte la psiche nel momento esatto in cui si mostra. Ossia a una rappresentazione viva della stessa, realizzata attraverso gli strumenti linguistici del medium videoludico. Solitamente i videogiochi hanno un approccio schematico alla rappresentazione degli stati interiori dei personaggi, che avviene attraverso singole visioni o momenti di stacco rispetto al normale flusso di gioco, quasi a corollario di quanto si è fatto in precedenza. In altri casi la psiche diventa il mondo di gioco stesso, come in Devotion di Red Candle Games o in Silent Hill 2 di Konami. In entrambi ci viene chiesto di giocare dentro l’inconscio sconvolto dei protagonisti, osservandone la manifestazione simbolica, ma tenendo comunque un certo distacco, anche lì dove siamo chiamati a compiere dei gesti atroci come nel finale di Devotion. Partecipiamo e siamo coinvolti, ma fino a un certo punto. Il nostro ruolo è più che altro quello di osservatori privilegiati. Non si tratta di una critica, beninteso, ma solo di un modo per cercare di spiegare in cosa Hellblade 2 è differente.
Di base il gioco di Ninja Theory riprende il nucleo tematico del primo capitolo usandolo come punto di partenza, ma continuando a elaborare la psicosi della protagonista per trasformarla in materiale di gioco. Come spiegato per il primo episodio, e qui in modo ancora più marcato, il giocatore ha un ruolo in qualche modo unico e funziona come se fosse parte della psicosi stessa, una terza entità che non parla con Senua, ma vive nel suo corpo, nel suo sistema nervoso, trascinandola lungo l’avventura e partecipando costantemente al suo dialogo con i morti, uno dei temi portanti della narrativa stessa. Senua è unica perché, a differenza di chi la circonda, comprende i giganti (i nemici) andando alla ricerca dei loro nomi, quindi della loro storia, aiutandoli ad elaborare i loro traumi così da accompagnarli verso l’aldilà (non è un caso che si trasformino in minerali, ossia la negazione stessa della massa / società).
In qualche modo il giocatore l’aiuta, perché non le permette di arrendersi, ma allo stesso tempo la ossessiona. Il giocatore è quello che risolve i puzzle e che emerge quando Senua “osserva” il mondo intorno a se alla ricerca dei simboli che consentono di aprire i passaggi bloccati. In quei momenti le altre voci sono impotenti, pur continuando a commentare ossessivamente ogni suo passo. Oltretutto non parlano solo a Senua, ma anche a noi, che siamo stati messi nella sua testa e che condividiamo la sua lacerazione.
Nessun personaggio esterno può sentire le voci, a parte noi e lei, e siamo noi a regolarci di conseguenza in base a ciò dicono. Siamo noi che la facciamo avanzare anche di fronte ai pericoli, perché agiamo da una posizione di onniscienza, forti di una doppia consapevolezza implicita che proiettiamo nel gameplay: quella di essere di fronte a una finzione che non può avere termine se non quando programmato che lo abbia e, di conseguenza, quella del videogiocatore che sa di non potere fare altro che condannarla a proseguire. Eppure siamo coinvolti in modo diverso rispetto ad altre esperienze narrative, perché tutti i sistemi di gioco sono stati piegati al tema portante e concorrono a darci l’idea di essere dentro Senua, pur guardandola dall’esterno. È impressionante come non ci sia una singola scelta di game design che vada in direzione contraria o che sia dissonante con le altre.
A dimostrare quanto detto ci viene in aiuto il sistema di combattimento, ripetitivo in modo quasi ossessivo e molto criticato per questo. In realtà ha una rara efficacia nel descrivere il rapporto che intercorre tra il giocatore e Senua, perché da una parte teatralizza la sua psicosi in modo drammatico, facendole ripetere fino allo stremo gli stessi scontri, come se fossero delle fasi deliranti che viviamo in forma alterata rispetto alla realtà effettiva. Dall’altra tira in ballo direttamente l’istintività del giocatore, cui non viene mai spiegato effettivamente come deve combattere, ma che riesce comunque a farlo grazie alla memoria meccanica legata all’esperienza complessiva fatta con il medium videoludico, stimolata da un gioco di feedback sottile e profondissimo, così forte che si manifesta anche in come il gioco comunica con il controller, quindi con il giocatore, in alcuni momenti chiave, trasmettendo fortissime vibrazioni che danno l’idea dell’urgenza della situazione, in particolare nel caso in cui Senua finisca a terra, stimolando così la reazione del giocatore.
Insomma, ogni sistema di gioco sembra più mirato a creare delle figure, intese in senso junghiano, che a dialogare con il genere degli action in terza persona, che è solo un incidente di percorso. Semplicemente è studiato per fare altro. Senua’s Saga: Hellblade 2 non deve sfidarci in senso tradizionale e, soprattutto, non deve bloccarci con puzzle o combattimenti molto difficili. Se lo avesse fatto sarebbe stata una scelta fatale. La fluidità del gameplay è funzionale all’esperienza, perché è armonica con essa, come nello scontro con un gigante in cui ci si muove praticamente a ritmo di musica.
“Ogni esperienza, nella misura in cui è un’esperienza, è integrale. Ha una forma e un significato specifico. È fatta, è realizzata. In altre parole, è estetica. La vita stessa è un’attività che consiste nel creare significato,” per dirla come Alva Noë in Strani strumenti, nel tentativo di spiegare la visione dell’arte di John Dewey. Seguiamo quindi il flusso del pensiero di Senua, le cui emozioni diventano immagini vive sullo schermo, e lo facciamo non solo nella messa in scena, ma anche all'interno delle dinamiche di gioco. Prendiamo la sequenza della grotta e immaginiamo di essere bloccati da qualche puzzle che ci richieda molti minuti per proseguire. Improvvisamente svanirebbe l’incanto. L’urgenza con cui ci muoviamo in quell’ambiente andrebbe in fumo, perché la nostra percezione sarebbe spostata dallo stato del personaggio all’analisi di un problema di difficile risoluzione, cambiando completamente il modo con cui percepiamo la scena.
Hellblade 2 avrebbe meritato una critica più centrata su questioni espressive, ossia su come il game design e il level design siano stati usati per ottenere certi effetti e su come alcune scelte radicali, per alcuni assurde, abbiano in realtà una funzione effettiva nel processo significante dell’opera, come ad esempio il formato della risoluzione video, che schiaccia Senua all’interno dell’immagine ed emerge come una precisa scelta compositiva che assume un senso all’interno del sistema gioco, non a prescindere da esso. Eppure si è parlato moltissimo della bande nere visibili su alcuni monitor o dei 30fps, come se tanti giocatori fossero letteralmente ossessionati da ciò che è oltre la fruizione, ossia una mancanza di gratificazione per il loro ruolo sociale di consumatori, che si esprime nello sfruttamento completo di quanto hanno acquistato. A ben vedere anche questa è una forma di psicosi, seppure socialmente considerata accettabile.