Dragon Ruins è un gioco di ruolo senza alcun gioco di ruolo
Scopriamo e dimentichiamo un'esperienza vuota che in qualche modo ha trovato una sua dimensione
Dragon Ruins di Graverobber Foundation non lo definirei nemmeno un gioco di ruolo, per quanto gli somigli parecchio. Forse sarebbe meglio parlarne come di un simulatore di numeri da gioco di ruolo.
Creato un party di quattro personaggi, si inizia a vagare per un enorme dungeon pieno di mostri… e basta. L’obiettivo è trovare un drago e ucciderlo per ricevere il titolo di eroi del regno. Un regno qualsiasi va bene, fate voi, non è davvero importante per l’economia di gioco.
L’impostazione sembra essere quella di un Dungeon Master o di un Lands of Lore, ma non fatevi ingannare, perché qui siamo di fronte a qualcosa di molto più basico di un qualsiasi dungeon crawler in prima persona: i combattimenti sono automatici e al giocatore non spettano scelte significative. Si gira per il dungeon, si combatte, si accumula esperienza, si torna in città spendendo i soldi ottenuti dalle vittorie per salire di livello o per acquistare del nuovo equipaggiamento (non ci sono oggetti veri e propri, si parla proprio di “equipaggiamento” in senso quasi astratto, considerando che sono solo numeri che salgono), quindi si torna nel dungeon e si ripete lo stesso loop, finché non si arriva dal drago e si riesce a vincere. Fine.
Nel dungeon non ci sono oggetti da trovare, ma solo zone con mostri differenti, che vanno affrontati quando si è del livello adeguato e si dispone di equipaggiamento abbastanza evoluto. I personaggi del party non hanno abilità uniche, ma solo valori che vengono usati automaticamente. Dopo averlo finito non saprei nemmeno dirvi la differenza tra un saggio e un paladino, visto che non ci sono magie di sorta. Per dire, c’è anche il classico clerico, ma non cura nessuno.
Nel dungeon non ci sono segreti o puzzle da risolvere. Ci sono però almeno due boss (o tre? è tutto talmente automatico che potreste ucciderne uno e nemmeno accorgervene), che si combattono sempre allo stesso modo e che sono solo dei nemici normali leggermente più forti degli altri.
Per il resto, c’è anche un negozio da cui comprare due soli oggetti consumabili: delle pozioni curative che, nemmeno a dirlo, vengono usate in automatico quando un personaggio esaurisce l’energia, e degli incantesimi di teletrasporto che evitano di dover ogni volta ripercorrere tutta la strada a ritroso per tornare all’ingresso del dungeon. Di questi ultimi, esistono anche delle versioni fisiche, per così dire, ossia delle caselle che, quando raggiunte, riportano in una stanza vicina all’ingresso facendo risparmiare un bel po’ di tempo.
Il livello di complessità di Dragon Ruins è davvero minimo e non vuole essere altrimenti, come sottolineato anche dallo stile visivo davvero essenziale. Il dungeon in sé è composto da poche linee, come se provenisse da un gioco di ruolo della fine degli anni 70 o dei primi anni 80, mentre i combattimenti non hanno animazioni di sorta, a parte per dei ritratti lampeggianti che appaiono in cima allo schermo a rappresentare i nemici incontrati. Sembra una specie di Wizardry liofilizzato.
Come passatempo può anche funzionare. In fondo Graverobber Foundation lo ha concepito come tale e lo ha prezzato di conseguenza (costa 4,99 euro). D’altro canto, ciò lo rende anche un gioco perfetto da ignorare, perché giocarci non vi lascerà niente, a parte la sensazione di aver passato un paio d’ore nel vuoto.
Il fatto che abbia ricevuto anche un seguito, quasi del tutto identico, sta a significare che a più di qualcuno questa formula è piaciuta. Chissà, magari si sono lasciati coinvolgere proprio dal vuoto. In fondo sono numeri che crescono.
Direi... Strano 😅 quasi più interessante indagare il motivo che ha portato allo sviluppo.